Il terremoto catastrofico del 5-30 dicembre 1456 (parte 2)

In occasione del 30 dicembre, data della verosimile seconda scossa del terremoto catastrofico del dicembre 1456, riprendiamo oggi la trattazione della crisi sismica del 5-30 dicembre 1456. Per la prima parte rimandiamo il lettore alla prima parte pubblicata il 5 dicembre.

Il terremoto catastrofico del 5-30 dicembre 1456 (parte 1)


Come abbiamo illustrato nella prima parte, uno sguardo dettagliato sulle tre aree dove furono documentati i danni maggiori e più estesi, incrociato con il quadro degli insediamenti dell’epoca, ha confermato una sostanziale separazione tra queste tre zone che, seppur piuttosto distanti lungo l’Appennino centro-meridionale, sono pur sempre adiacenti da sud verso nord (Figura 5)..

Figura 5: Le tre aree che hanno riportato i massimi danni cumulativi causati dalla sequenza del 1456 (l’ubicazione è reperibile in basso a destra). Da: Fracassi e Valensise (2007).

Lo studio che si è reso necessario per cercare una spiegazione sismo-tettonica convincente alla sequenza del 1456 ha quindi dovuto mettere insieme elementi tra loro apparentemente lontani (Fracassi e Valensise, 2007):

  • un approfondimento storico, territoriale, finanche linguistico sugli unici dati disponibili su un terremoto medioevale, ovvero le località danneggiate, l’entità dei danni e la loro distribuzione sul territorio, per offrire un vincolo il più concreto possibile sul quadro dei danni realmente accaduti;
  • una rilettura ad ampio raggio ed una sintesi delle conoscenze sul sottosuolo dell’Appennino centro-meridionale (ad es., Sawyer, 2001; Butler et al., 2004; Nicolai e Gambini, 2007), alla ricerca di possibili strutture coinvolte, anche diverse da quelle più note (Valensise e Pantosti, 2001), e sino ad alcuni anni fa non considerate come possibili sorgenti sismogenetiche;
  • una lettura innovativa dei meccanismi tettonici noti, anche rivisti alla luce di recenti approfondimenti su terremoti relativamente poco studiati ma avvenuti in zone particolarmente decisive per la sequenza in esame, alla ricerca di possibili spiegazioni per una sequenza talmente estesa.

In questo senso, alcuni esempi chiave provengono da terremoti in parte rivisitati solo in anni recenti, come quello del 23 luglio 1930, che ha distrutto una parte dell’Irpinia (Emolo et al., 2004; Pino et al., 2008), quello del 5 maggio 1990, che colpì la città di Potenza (Ekström, 1994; Di Bucci et al., 2006). e quelli del 30 ottobre e 1 novembre 2002, che colpirono il Molise orientale (Di Bucci e Mazzoli, 2003; Valensise et al., 2004; Chiarabba et al., 2005; Vallée e Di Luccio, 2005). In particolare, questi ultimi due eventi, per via delle loro caratteristiche piuttosto peculiari, hanno contribuito ad attirare l’attenzione sul settore orientale dell’Appennino centro-meridionale, l’avampaese apulo.

L’analisi dettagliata del quadro dei danni dovuta alla sequenza del 1456 ed una ricostruzione della scansione cronologica, basate sulle fonti storiche e sulla loro successione temporale e rilevanza territoriale (Fracassi e Valensise, 2007), hanno consentito di individuare cinque/sei fasi che sembrano scandire lo sviluppo della sequenza e la conseguente distribuzione dei danni in aree in parte coincidenti o attigue, in parte distinte (Figura 6).

Figura 6: Le finestre temporali che racchiudono gli eventi della sequenza del 1456 in base ai parametri estratti dalle caratteristiche dei testi ed al rapporto vittime/residenti dedotto delle fonti contemporanee (Guidoboni e Comastri, 2005). Le date nella legenda sono quelle dei manoscritti che descrivono gli effetti del terremoto; di conseguenza, non riflettono direttamente l’anno/periodo della scossa. I danni riferiti sono datati (anno-mese-giorno): (a) 1456-12-06, -12-07, -12-08, -12-09, -12-11; (b) 1456-12- 12, -12-14; (c) 1456-12-22; (d) 1457-01; (e) 1457-01-14; (f) quadro dei danni, non riportati in altre fonti storiche, estratti dal rapporto del 1457. Le linee tratteggiate racchiudono le aree per cui siano note intensità massime (zone epicentrali), ad eccezione della costa pugliese; i punti che riportano anche il dato d’intensità indicano le località che verosimilmente hanno riportato i danni di più scosse. La scala geografica dei riquadri da a ad e è la stessa (mostrata nel riquadro a), simile a quella del riquadro f. Da: Fracassi e Valensise (2007).

Questa suddivisione temporale e spaziale ha permesso di circoscrivere con sufficiente attendibilità l’area di danneggiamento ascrivibile alla prima scossa accertata, quella del 5 dicembre (Figura 6a), ovvero l’entroterra campano tra Sannio e Irpinia. A questa scossa sono stati imputati anche i risentimenti lungo la costa pugliese, ricostruiti attraverso una fonte immediatamente successiva alla sequenza (Figura 6f). Fonti pervenute alle destinazioni originali dal 12 al 14 dicembre ed il 22 dicembre (Figura 6b e 6c) mostrano la dilazione temporale con cui arrivarono le notizie di danni dalle aree colpite il 5 dicembre, sebbene la sequenza abbia comunque avuto uno sviluppo attraverso tutto il mese, in parte interessando anche aree più a nord (in Abruzzo). Molte notizie di danni, in effetti, provengono da località già colpite dalla prima scossa e questo può indicare sia informazioni giunte successivamente circa i danni dovuti alla scossa del 5 dicembre, sia effetti dovuti al procedere della sequenza. Questa, ovviamente, insisteva su un’area già gravemente danneggiata dal terremoto del 5 dicembre, dove quindi ogni altra scossa non poteva che contribuire ad aumentare i danni precedenti (specialmente in assenza di moderni meccanismi di pronto intervento e di rapida messa in sicurezza di edifici pericolanti). I danni ascritti alla scossa del 30 dicembre compaiono in fonti storiche risalenti ai primi giorni del gennaio 1457 (Figura 6d). Le zone colpite in parte ricalcano e in parte estendono le aree danneggiate sino a quel punto, includendo il Sannio e il Molise, e tornano ad evidenziare una zona sensibilmente più a nord, in Abruzzo, tra la Maiella e il Gran Sasso, dove i danni sono stati molto significativi. Questo ha portato ad ipotizzare un’ulteriore forte scossa, verosimilmente contemporanea o immediatamente successiva a quella del 30 dicembre, mentre la sequenza si è protratta almeno per tutto il mese di gennaio 1457 (Figura 6e).

Figura 7: Aree che raggruppano i danni in base alla loro distribuzione spazio-temporale (la numerazione è progressiva in ordine di attivazione). Per ogni evento viene riportata la magnitudo momento (Mw) ed il corrispondente momento sismico (M0). Le sorgenti macrosismiche (rettangoli neri) sono state calcolate dai dati di intensità utilizzando il codice Boxer (con la procedura usata in Gasperini et al., 1999) per ciascuna delle tre aree (parametri in basso a sinistra). Le stelle rappresentano il centroide della sorgente macrosismica, ovvero l’epicentro calcolato dal codice Boxer, non quello proveniente dal catalogo dei terremoti storici. Da: Fracassi e Valensise (2007).

Questa ricostruzione ha, dunque, consentito di ipotizzare 3 aree principali di risentimento e, quindi, tre scosse distinte, ordinate (geograficamente) da sud verso nord e (cronologicamente) a partire dal 5 dicembre 1456 in avanti (Figura 7 da Fracassi e Valensise, 2007):

  1. il Sannio e l’Irpinia, dove insistono i danni maggiori, e secondariamente la Piana Campana, Napoli compresa, e la Puglia centro-meridionale. Per questa scossa del 5 dicembre 1456 è stata calcolata una magnitudo in base ai dati macrosismici di 6.9 (per avere un’idea, è una stima pressoché confrontabile con la magnitudo del terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980; vd. Pantosti e Valensise, 1990);
  2. l’alto Sannio e il Molise, sino alla Puglia settentrionale, area colpita (anche) dalla scossa del 30 dicembre. L’entità della distruzione dovuta a questo terremoto è stata tale da far proporre una magnitudo vicina a 7.2 (a mo’ di confronto, si tratta di una stima pressoché simile alla magnitudo del grande terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908; vd. Pino et al., 2009);
  3. l’Abruzzo centrale e sud-orientale, tra la Marsica e il massiccio della Maiella, area in parte già colpita durante il mese di dicembre. Contemporanea o immediatamente successiva al terremoto del 30 dicembre in Molise, per questa scossa è stata valutata una magnitudo di circa 6.0 (equivalente, ad esempio, a quella della scossa di Amatrice del 24 agosto 2016; vd. Chiaraluce et al., 2017).

Ricapitolando, Fracassi e Valensise (2007) hanno proposto una revisione della scansione temporale e spaziale della sequenza del 1456, basandosi su dati macrosismici aggiornati, sintetizzando e approfondendo le ricostruzioni storiche proposte da vari autori. Come detto in precedenza, la gravità dei danni, la loro estensione e la loro posizione lungo l’Appennino centro-meridionale ha portato questi autori a proporre una soluzione che tenesse conto anche di quanto appreso negli anni sulla sismogenesi ad est dell’asse della catena appenninica. Difatti, la ricerca di una soluzione innovativa nasceva dal fatto che le proposte sino a quel punto disponibili avevano dimostrato l’indubbia complessità di questa crisi sismica ma sembravano insufficienti a spiegare il meccanismo tettonico responsabile nella sua interezza.

La proposta, sintetizzata in Figura 8, racchiude tre sorgenti sismogenetiche, denominate in ordine progressivo di attivazione, da sud verso nord, con A, B, e C. Queste sorgenti proposte sono:

  1. basate sulla ricostruzione storica e spaziale derivata dai dati macrosismici (parametri in Figura 7),
  2. congruenti con la posizione delle sorgenti sismogenetiche ritenute responsabili per forti terremoti, sia storici e strumentali, già note (da: DISS Working Group, 2006; Basili et al., 2008), e
  3. ipotizzate sulla base delle strutture del sottosuolo nella piattaforma apula (Sella et al., 1988; Sawyer, 2001; Butler et al., 2004; Nicolai e Gambini, 2007) e già discusse in seguito al citato terremoto doppio del Molise del 31 Ottobre e 1 Novembre 2002 (Di Bucci et al., 2006).
Figura 8: Le sorgenti sismogenetiche proposte per le tre scosse principali della sequenza del 1456 (rettangoli in rosso; le lettere sono in ordine cronologico di attivazione). Le frecce indicano l’orientazione del campo di sforzo orizzontale (secondo Montone et al., 2004). Notare che le faglie proposte (in particolare quelle più grandi, ovvero A e B) sono in parte vincolate dalla posizione delle sorgenti sismogenetiche (rettangoli in giallo), provenienti dalla banca dati DISS v. 3.0.2, responsabili dei terremoti storici e strumentali più forti (anni adiacenti alle sorgenti; dati in: DISS Working Group, 2006). Le strutture note nel sottosuolo sono indicate in verde (dati da: Sella et al., 1988; Sawyer, 2001; Nicolai e Gambini, 2007). I parametri delle sorgenti sismogenetiche, basati sulle relazioni empiriche (Wells e Coppersmith, 1994) e analitiche (Kanamori e Anderson, 1975), sono sintetizzati in basso a sinistra. In alto a destra c’è una sintesi descrittiva dei parametri geometrici della sorgente sismogenetica (determinati usando FaultStudio 1.2; per gentile concessione di Roberto Basili, INGV). Da: Fracassi e Valensise (2007).

Le faglie ad orientamento appenninico (circa NW-SE), come quella responsabile del già citato terremoto dell’Irpinia del 23 Novembre 1980, sono a ridosso dell’asse estensionale dell’Appennino meridionale e mostrano una cinematica prevalente per faglia normale. Per contro, quelle orientate circa est-ovest, come quella del terremoto dell’Irpinia del 23 luglio 1930 precedentemente riportato, ricadono all’interno dell’avampaese apulo; a queste viene imputata una cinematica trascorrente obliqua destra. Il lavoro di Fracassi e Valensise (2007), anche grazie a tutti gli studi che lo hanno preceduto e qui riportati in Bibliografia, ha proposto che le faglie responsabili per le scosse della sequenza del 1456 siano di questo secondo tipo, riguardando quindi il settore orientale dell’Appennino centro-meridionale. Questa interpretazione è poi confluita nel catalogo delle sorgenti sismogenetiche curato negli anni dall’INGV (DISS Working Group, 2021).

La crisi sismica del dicembre 1456 fu, come detto, davvero imponente per l’epoca, dato il numero di vittime e la vastità dei danni. Per certi versi, si tratta anche di uno spartiacque cronologico nella storia d’Italia (sismica ma non solo), accaduta così a ridosso della nascita di Leonardo da Vinci (1452-1519) e degli straordinari avanzamenti culturali e scientifici che seguirono l’epilogo del Medioevo e l’inizio del Rinascimento. Anche vista con gli occhi contemporanei, una simile devastazione, così diffusa e grave, ha richiesto uno sforzo supplementare alla ricerca di una soluzione che potesse conciliare dati di natura diversa, forse sino ad allora non completamente messi a confronto e, dunque, forse poco sfruttati nella loro possibile sinergia. Come scriveva Eraclito, uno dei più grandi filosofi pre-socratici, “Pòlemos [la contesa] è il  padre di tutte le cose”. Ma non tutte le contese sono belligeranti, anzi; molte nascono per il bene dell’intelletto, per il miglioramento, per la ricerca di una soluzione. Ecco, una ‘contesa’ contro le difficoltà scientifiche, contro la scarsità dei dati, contro la complessità di un quesito sovente costituisce un formidabile punto di partenza per la ricerca scientifica. Questo principio è tanto più vero quando, nello studio dei terremoti del passato, viene applicato ad una sequenza troppo grande per essere spiegata con un solo meccanismo, o con un meccanismo già noto.

A cura di Umberto Fracassi, (INGV – Roma1)

Bibliografia

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