Terremoti e tsunami: quando le faglie scivolano sul fango
Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, dal titolo “Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone”, ha permesso di comprendere alcuni aspetti originali della genesi dei grandi terremoti e degli tsunami. Lo studio è stato condotto grazie alla collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di Pisa, di Padova e la University College of London, su alcuni campioni provenienti dalla zona di subduzione di Hikurangi in Nuova Zelanda.
Scopo dello studio
I grandi margini di placca in subduzione ospitano due dei fenomeni naturali più pericolosi e più importanti in geofisica: i grandi terremoti e gli tsunami. Inoltre, lungo questi margini si registrano numerosi eventi, simili ai terremoti nel principio ma diversi nel modo in cui rilasciano l’energia accumulata nei secoli sotto forma di onde elastiche. Questi motivi fanno sì che i grandi margini di subduzione abbiano attratto l’interesse della comunità scientifica (Figura 1).

Il problema dello studio di questi margini di placca, problema comune a tutti i terremoti, è che la sismologia è una disciplina relativamente recente rispetto alla scala temporale con cui si ripete un ciclo sismico (da alcune decine a diverse centinaia di anni) e che i dati a nostra disposizione non sono sempre sufficienti a darci la risoluzione spaziale e temporale sul terremoto o sugli altri eventi, quelli che ad esempio generano onde elastiche in una frequenza diversa da quella a cui è tipicamente sensibile un sismometro. Inoltre la sorgente di tutti questi fenomeni è a profondità che vanno dai 5-10 km della crosta superficiale ai 600 km del mantello superiore. Pertanto studiare i meccanismi che inducono questa grande varietà di eventi è complicato dal momento che la sorgente non è direttamente accessibile e molto spesso non ci è possibile determinare il tipo di rocce e minerali coinvolti nel processo.
Per fare fronte a queste limitazioni da circa 50 anni si è utilizzato, accanto alla sismologia, un approccio sperimentale che studia la meccanica del terremoto, si interroga sul concetto di stabilità di una faglia e sui meccanismi che generano i terremoti. Il principio è simile a quello introdotto da Leonardo Da Vinci nel ‘400: il moto di un corpo che scivola su un piano inclinato è regolato dall’attrito. L’attrito regola anche il moto relativo delle rocce di faglia che scivolano con una velocità di deformazione all’interno di un campo di forze nella profondità della litosfera. Per studiare cosa genera il terremoto e in quali condizioni il terremoto si enuclea, come la frattura si propaga, diventa eventualmente grande e poi si arresta, da oltre dieci anni all’INGV nel laboratorio HPHT di alta pressione e alta temperatura, utilizziamo macchine sperimentali ad alto contenuto tecnologico per deformare le rocce a pressioni di centinaia di atmosfere, velocità di scorrimento di metri al secondo, scivolamento dei blocchi ai lati della faglia anche di decine di metri, ovvero le condizioni prossime a quelle del terremoto (Figura 2).

Il vantaggio di questa simulazione (vedi video sotto) è che avviene in condizioni controllate, in un contesto in cui ci è possibile posizionare strumenti di misura e quindi monitorare la faglia sperimentale con tutti i mezzi resi disponibili dal continuo progresso tecnologico. Inoltre in laboratorio è possibile ripetere l’esperimento numerose volte e generare un set di dati statisticamente consistente per formulare e testare delle ipotesi.
Esperimento condotto su SHIVA a una velocità di 6.5 m/s e carico normale di 20 MPa su rocce di gabbro. In pochi millisecondi tra le due rocce che simulano la faglia in contatto si genera un fuso di roccia dovuto alle alte temperature prodotte dall’attrito per effetto dello scorrimento relativo.

L’approccio sperimentale è continuamente sottoposto a un processo di validazione. Infatti il laboratorio può fornire delle utili leggi matematiche che descrivono un processo su una scala spaziale piccola (fino a qualche centimetro) mentre i terremoti si generano su strutture che possono estendersi per centinaia di km. Dunque per testare la rappresentatività del dato sperimentale si rende necessario uno sforzo di validazione che si basa sul confronto con il dato geologico che deriva dallo studio delle rocce di faglia naturali (come ad esempio le cicatrici dei terremoti, fusi solidificati generati per attrito in una faglia durante un terremoto e chiamate pseudotachiliti, Figura 3) e con il dato sismologico che deriva dallo studio delle informazioni contenute nelle onde elastiche liberate durante i terremoti (Figura 4). Recentemente l’approccio sperimentale si è arricchito di una nuova opportunità che ci deriva dalla perforazione profonda delle zone di subduzione, la quale permette di riportare in superficie e testare in laboratorio campioni di roccia prelevati direttamente dalle zone di faglia attive (https://www.icdp-online.org/home/, http://iodp.org/).

Ad esempio, successivamente al grande terremoto di Tohoku-oki 2011 (Mw 9, si veda un recente lavoro di sintesi a 10 anni dal terremoto Uchida, N., & Bürgmann, R., 2021) che generò uno tsunami devastante (altezza onde > 10 m), venne avviata la prima campagna di perforazione oceanica profonda nel margine di subduzione al largo del Giappone (progetto JFAST). La spedizione, oltre a fornire un certo numero di dati sullo stato di sforzo della crosta terrestre e delle temperature minime raggiunte in quel particolare terremoto (vedi Brodsky et al., 2020), portò in superficie i campioni del primo chilometro di sedimenti oceanici sotto una colonna d’acqua di 6910 metri (http://www.jamstec.go.jp/e/about/press_release/20120309/). I grandi terremoti che si generano in profondità, consentendo il movimento relativo e improvviso delle placche, sollevano proprio quei primi chilometri sottostanti il fondale marino energizzando la colonna d’acqua sovrastante e producendo devastanti tsunami. In quei primi chilometri però si era sempre ritenuto che i sedimenti composti principalmente di argille impregnate di acqua dovessero arrestare la deformazione sismica impedendo che il terremoto potesse arrivare a deformare il fondale oceanico, ma il grande terremoto di Tohoku fu proprio la dimostrazione che in alcuni casi non è così.
La possibilità di studiare questi sedimenti, la loro composizione e il loro comportamento meccanico e appunto la probabilità che in alcuni casi queste argille possano comportarsi come barriere alla propagazione del terremoto in superficie oppure come “trampolini di lancio” alla deformazione del fondale oceanico è un’opportunità straordinaria. Studi sperimentali hanno dimostrato che queste argille, specialmente in presenza d’acqua, sono in grado di propagare la deformazione con conseguenze simili a quando scivoliamo sul fango, giocando a calcetto in un campo di periferia dopo un acquazzone. Inoltre questi studi sperimentali possono fornire i parametri meccanici necessari (valore della resistenza di una faglia durante un terremoto, per esempio) ai colleghi teorici per le elaborazioni numeriche, l’interpretazione del processo alla scala spaziale (migliaia di km quadrati) e per lo studio di nuovi modelli di pericolosità sismica e da tsunami (Murphy et al., 2018).
Ad oggi sono stati completati numerosi progetti di perforazione profonda (in genere fino a 4000 m di profondità) su scala globale (Figura 5). Alcuni di questi hanno avuto come obiettivo lo studio di faglie attive o dei sedimenti che sono destinati a diventare parte sismicamente attiva del margine di subduzione. In questi casi il nostro laboratorio è stato coinvolto attivamente, tra i tanti citiamo: il progetto SAFOD o perforazione della Faglia di San Andreas in California; il progetto J-FAST o perforazione della faglia che ha prodotto il terremoto di Tohoku Mw 9.0 al largo del Giappone; il progetto WSFD o perforazione delle faglia che ha prodotto il disastroso terremoto di Wenchuan Mw 7.8, Cina, nel 2008 (80.000 vittime), il progetto CRISP in Costa Rica.
Un progetto di perforazione è stato finanziato dall’ICDP anche in Italia (il progetto STAR) per la realizzazione di 6 pozzi superficiali (<250m) in corrispondenza del hanging-wall della faglia Alto-Tiberina, una faglia normale attiva nonostante la sua orientazione non favorevole rispetto al campo di sforzi attivo nella regione (https://www.icdp-online.org/projects/world/europe/northern-apennines-italy/details/). All’interno dei sei pozzi verranno installati una serie di sensori sismici, geodetici e geofisici le cui registrazioni completeranno i dati multidisciplinari che per l’area sono in acquisizione da un’infrastruttura di ricerca, sempre INGV, denominata “The Alto Tiberina Near Fault Observatory”.

Recentemente, a largo dell’isola del nord della Nuova Zelanda, nel 2017-2018 due missioni di perforazione oceanica hanno campionato una faglia nella zona dove la placca Pacifica scende in subduzione sotto la placca Indo-Australiana (Figura 6).

La faglia in questione è anch’essa composta da argilla molto fine, simile a quella di Tohoku. Questa faglia era stata scelta poiché, oltre ad aver prodotto terremoti con onde di tsunami nel 1947, attualmente è interessata da un tipo di deformazione lenta detta “slow slip event”. Gli “slow slip event” che peraltro, nel caso del terremoto di Tohoku-oki (Mw 9), erano stati studiati in associazione alla enucleazione dei megaterremoti (e.g. Michel et al., 2019). Nonostante, come anticipato, i primi studi teorici (Sibson, 1973; Rice, 2006; Bizzarri e Cocco, 2006) avessero suggerito che l’acqua è un elemento essenziale per determinare il comportamento di questi materiali quando deformati alle condizioni del terremoto, alcune limitazioni tecniche avevano impedito uno studio sistematico del fenomeno di interazione di queste argille con l’acqua in pressione. Questo perché, in una faglia, durante un terremoto, si raggiungono condizioni estreme che, riprodotte negli esperimenti, sono tali da espellere completamente l’acqua (o lo stesso campione imbevuto d’acqua) dal portacampioni, rendendo impossibile lo studio dell’interazione di queste argille con fluidi in pressione.

Nello studio appena pubblicato su Nature Communication (Aretusini et al., 2021) sono state finalmente superate queste limitazioni tecniche e viene mostrato, per la prima volta, come l’acqua contenuta nelle argille della faglia aumenta di pressione durante la deformazione associata a un terremoto. Questa pressione esercitata dall’acqua intrappolata nelle polveri argillose “solleva” le rocce sovrastanti, favorendo lo scivolamento dei blocchi di roccia ai lati della faglia. In modo analogo a quanto accade quando noi scivoliamo sotto la pioggia mentre inseguiamo il pallone in un campo di calcetto di periferia, i blocchi di roccia scivolano sul fango imbevuto d’acqua durante il terremoto (Figura 7). In questo modo la deformazione può raggiungere la superficie del margine di subduzione, produrre dislocazioni importanti e generare terremoti di grande magnitudo. Inoltre la deformazione è tale da sollevare il fondale marino con energia sufficiente a movimentare la colonna d’acqua sovrastante eccitando onde di tsunami che hanno effetti devastanti quando raggiungono i bassi fondali delle nostre coste.
A cura di Elena Spagnuolo e Stefano Aretusini (INGV-Rm1), Giulio Di Toro (Università di Padova).
L’articolo è consultabile sul sito della rivista (il file pdf è disponibile su richiesta tramite email agli autori). Il lavoro è stato diffuso anche tramite Comunicato Stampa INGV.
Bibliografia
Aretusini, S., Meneghini, F., Spagnuolo, E. et al. Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone. Nat Commun 12, 2481 (2021). https://doi.org/10.1038/s41467-021-22805-w
Bizzarri, A., and Cocco, M. (2006), A thermal pressurization model for the spontaneous dynamic rupture propagation on a three‐dimensional fault: 2. Traction evolution and dynamic parameters, J. Geophys. Res., 111, B05304, doi:10.1029/2005JB003864.
Brodsky E., Mori J.J., Anderson L., et al., The State of Stress on the Fault Before, During, and After a Major Earthquake, Annual Review of Earth and Planetary Sciences 2020 48:1, 49-74,https://doi.org/10.1146/annurev-earth-053018-060507
Di Toro, G., Niemeijer, A., Tripoli, A. et al. From field geology to earthquake simulation: a new state-of-the-art tool to invstigate rock friction during the seismic cycle (SHIVA). Rend. Fis. Acc. Lincei 21, 95–114 (2010). https://doi.org/10.1007/s12210-010-0097-x
Di Toro G. Hirose, T. Nielsen S., Pennacchioni, G. Shimamoto T. Natural and Experimental Evidence of Melt Lubrication of Faults During Earthquakes, Science 03 Feb 2006:Vol. 311, Issue 5761, pp. 647-649 DOI: 10.1126/science.1121012
Michel S., Gualandi A., Avouac J-P. Similar scaling laws for earthquakes and Cascadia slow-slip events. Nature, 2019; 574 (7779): 522 DOI: 10.1038/s41586-019-1673-6
Murphy, S. et al. Shallow slip amplification and enhanced tsunami hazard unravelled by dynamic simulations of mega-thrust earthquakes. Sci. Rep. 6, 35007; doi: 10.1038/srep35007 (2016).
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Rice, J. R. (2006), Heating and weakening of faults during earthquake slip, J. Geophys. Res., 111, B05311, doi:10.1029/2005JB004006.
SIBSON, R. Interactions between Temperature and Pore-Fluid Pressure during Earthquake Faulting and a Mechanism for Partial or Total Stress Relief. Nature Physical Science 243, 66–68 (1973). https://doi.org/10.1038/physci243066a0
Uchida, N., & Bürgmann, R. (2021). A Decade of Lessons Learned from the 2011 Tohoku‐oki Earthquake. Reviews of Geophysics, 59, e2020RG000713. https://doi.org/10.1029/2020RG000713
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