I terremoti del ‘900: Il terremoto del 15 gennaio 1968 nella Valle del Belice (Parte 2)

Nel gennaio di quest’anno si è ricordato il cinquantesimo anniversario del catastrofico terremoto che ha devastato il Belice nel 1968 (magnitudo Mw 6.5 – Intensità epicentrale X scala MCS). Per approfondire gli aspetti di questa sequenza sismica è stato pubblicato un articolo su questo blog il 29 marzo scorso e questa è la seconda parte. Questi articoli sono tratti dal volume “Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni”, di Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e dell’ambiente e fondatrice del Centro EEDIS (Eventi Estremi e Disastri) e Gianluca Valensise, geologo e sismologo dell’INGV. Il volume è stato edito da Bononia University Press (ISBN: 978-88-7395-683-9) e pubblicato nel 2011, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. I dati su cui è basato il volume sono tratti dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia [1].

Dai soccorsi alla ricostruzione

Nei giorni immediatamente successivi al terremoto tutti gli organi di stampa posero unanimemente l’accento sulla mancanza di qualsiasi piano d’intervento. Alcuni opinionisti evidenziarono le ricorrenti sovrapposizioni di competenze e i conflitti, o le competizioni incomprensibili tra le autorità civili e quelle militari, o tra esponenti del governo regionale e funzionari del governo nazionale, nell’organizzare l’opera di soccorso. Le disfunzioni ebbero conseguenze gravi: quantità enormi di generi alimentari ed attrezzature di soccorso furono concentrate dove non vi erano particolari bisogni, mentre dalle località più colpite si levavano drammatiche richieste di invio di soccorsi e materiali. Le disfunzioni e i ritardi ebbero tuttavia il merito di offrire lo spunto per avviare sulla stampa nazionale un vasto dibattito sulla legge di riordino del settore della protezione civile, la cui discussione era bloccata in Parlamento per contrasti fra diversi gruppi politici.

A dieci giorni dalla violenta scossa del 15 gennaio erano state impiantate 11 tendopoli, che accoglievano più di 16.000 persone: circa 9.500 in provincia di Trapani, 4.000 nella provincia di Agrigento e 2.600 in quella di Palermo. Gli sfollati ricoverati nei centri di raccolta (scuole, alberghi, edifici pubblici e case private) erano, alla stessa data, 10.650 in provincia di Trapani e 3.050 in quella di Palermo, per un totale di quasi 14.000 persone. Molti posti letto in edifici in muratura, messi a disposizione delle autorità, non potevano essere utilizzati perché mancavano i materassi.

Testimonianze di alcuni abitanti di Santa Ninfa, riportate dalla stampa nazionale, e in particolare le dichiarazioni rilasciate da don Antonio Riboldi, all’epoca parroco del paese e in seguito coraggioso accusatore di interessi illegali sulla ricostruzione, resero pubblico il fatto che i primi soccorsi erano giunti da militari statunitensi nel pomeriggio del lunedì 15 gennaio. Solo dopo cinque giorni dalla scossa principale, ossia il 20 gennaio, erano giunti i primi soccorsi organizzati, portati dalla Marina Militare italiana, che aveva ricevuto disposizioni in tal senso solo il giorno precedente.

La situazione di disorganizzazione causò proteste sia in Sicilia sia a Roma, e vari episodi di intolleranza. A Palermo le scosse del 15 e del 25 gennaio resero drammatico il problema delle abitazioni per gli sfollati dai fatiscenti quartieri del centro storico, che avevano largamente risentito degli effetti sismici.

Le comunicazioni ufficiali del governo (terzo mandato di Aldo Moro) durante la seduta parlamentare del 22 gennaio 1968 attribuirono le difficoltà incontrate nel portare soccorsi alle popolazioni ad avversità climatiche, all’interruzione delle strade o alla loro mancanza, e all’atteggiamento non collaborativo delle popolazioni. Da più parti fu denunciato l’uso strumentale del terremoto sia da parte delle forze politiche di opposizione, sia da parte di quelle di governo. Lo scontro politico ebbe conseguenze negative sull’opera complessiva di soccorso e di ricostruzione. In realtà la quantità di aiuti e di concessioni elargite dallo Stato era stata notevole, ma era mancato quasi completamente una piano per una loro razionale ed efficace ripartizione. A tutto ciò si aggiunse una strisciante polemica sulla reale entità dei danni causati dal terremoto tra i rappresentanti del governo regionale siciliano e quelli del governo nazionale.

Santa Ninfa: i resti della chiesa Madre.

Verso la fine di gennaio 1968 i medici presenti nella zona terremotata dichiararono a più riprese sulla stampa nazionale che le tendopoli dovevano essere al più presto smontate, per evitare che le precarie condizioni igieniche, unite all’inclemenza della stagione invernale, causassero l’insorgere di epidemie e la morte degli individui più deboli. Se ai dati relativi alla popolazione nelle tendopoli e nei centri di raccolta si aggiunge il numero di coloro che se ne erano andati – circa 10.000 persone – si ha un totale di circa 40.000 individui che avevano perso la residenza, su di un totale di 80.000 residenti nelle aree maggiormente danneggiate.

A Vita, il giorno immediatamente successivo alla scossa principale, gli abitanti si erano accampati in luoghi aperti, costruendo da soli capanne di frasche e di canne con tetti di paglia. Il 22 gennaio si era diffusa la notizia che il Provveditorato regionale alle Opere Pubbliche della Sicilia, su disposizione del Ministro dei Lavori Pubblici, aveva ordinato 5.235 baracche, la cui fornitura era prevista nell’arco di 20-40 giorni. Il 2 marzo seguente le baracche impiantate, secondo i dati pubblicati, erano solo 92.

Poggioreale: i resti della chiesa oggi, nel sito abbandonato.

Le autorità facilitarono in ogni modo il movimento migratorio, concedendo biglietti ferroviari gratuiti e rilasciando, senza formalità o intralci burocratici, i passaporti. Con questa linea di condotta si accolsero le richieste dalla gente, ma soprattutto si percorreva la strada più semplice per attenuare la pressione sociale nei paesi devastati. Contro questa strategia dell’abbandono si pronunciarono le organizzazioni locali degli agricoltori e le associazioni sindacali. Dopo la rovinosa replica del 25 gennaio 1968 le autorità proclamarono i paesi di Gibellina, Montevago e Salaparuta “zone proibite all’ingresso”.

Le perizie dell’ufficio tecnico del Genio Civile di Agrigento negli ultimi giorni del gennaio 1968 riportarono le cifre dei senzatetto per nuclei familiari: 750 famiglie a Montevago, 2.100 a Santa Margherita di Belice, 200 a Sciacca, per un totale di circa 80.000 persone. A circa un mese di distanza dall’inizio del terremoto, attorno alla metà del febbraio 1968, nella sola provincia di Trapani circa 9.000 senzatetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6.000 in tendopoli, 3.200 in tende sparse e 5.000 in carri ferroviari, mentre 10.000 persone erano emigrate in altre province. Rimanevano da sistemare circa 47.000 persone.

I superstiti in cammino verso i campi di accoglienza.

Una folla di terremotati prende la via del nord

L’impatto degli eventi sismici sulla dinamica demografica complessiva delle zone colpite si evidenziò attraverso una brusca accelerazione del già consistente fenomeno migratorio, soprattutto della popolazione maschile in età lavorativa, verso il nord d’Italia e i paesi dell’Europa settentrionale. Solo i provvedimenti restrittivi dell’immigrazione adottati dalla Svizzera negli ultimi giorni di gennaio, la progressiva saturazione delle aree di accoglienza nel nord d’Italia, la rassegnazione e la volontà di ricostruire rallentarono momentaneamente il flusso migratorio, che era cresciuto notevolmente dopo la replica del 25 gennaio 1968.

Il 29 gennaio, secondo le dichiarazioni rilasciate alla stampa dai sindaci dei comuni maggiormente danneggiati, erano quasi 10.000 le persone che avevano lasciato i luoghi di residenza o avevano fatto richiesta in tal senso. Complessivamente si valutò in circa 12.000 il numero delle persone che lasciarono le zone terremotate partendo dalla stazione ferroviaria di Palermo. A Milano il 28 gennaio si stimava intorno a 1.300 il numero dei profughi giunti dalle località siciliane danneggiate dal terremoto, di cui 900 circa furono posti completamente a carico dell’assistenza pubblica.

A Santa Margherita di Belice gli emigrati furono un migliaio, e a fine gennaio nelle tendopoli allestite nei pressi dell’abitato distrutto erano rimaste 3.000 persone, rispetto ai 7.841 abitanti costituenti la popolazione presente prima del terremoto.

A Camporeale, in seguito al disastro, abbandonarono il paese in direzione di altre località siciliane o dell’Italia settentrionale ben 2.600 abitanti su 6.093. Solo 350 persone, alla fine del gennaio 1968, erano rimaste nelle tendopoli e in ripari di fortuna nella zona di Montevago.

Nei 14 comuni dell’area maggiormente danneggiata la popolazione presente scese dalle 96.417 unità del censimento 1961 alle 85.415 rilevate nel 1971. A circa un mese dal terremoto circa 10.000 persone residenti nella provincia di Trapani si erano trasferite in altre province. Tra le conseguenze a medio termine si accentuò la tendenza all’accentramento della popolazione nelle città e lo spopolamento nelle campagne. Iniziò l’afflusso di manodopera nordafricana impiegata nei lavori agricoli stagionali, che colmò i vuoti causati dall’emigrazione nelle schiere del bracciantato agricolo [2].

Una delle tendopoli approntate ai bordi delle strade.

Interventi statali ingenti, mal distribuiti e corrosi da interessi illegali

I primi provvedimenti del governo nazionale furono adottati nel corso della seduta del Consiglio dei Ministri svoltasi il 20 gennaio 1968. Tra le misure d’emergenza adottate figurarono: la sospensione del pagamento delle imposte nelle zone danneggiate fino al 31 dicembre 1968; una moratoria sui debiti e le cambiali; la sospensione del pagamento dei canoni di locazione di immobili urbani e rurali; l’elargizione di un contributo di 500.000 lire una tantum a beneficio dei capifamiglia, previa presentazione di un certificato rilasciato dalla Prefettura o dal Genio Civile, che attestasse la perdita di ogni avere; l’aumento dei sussidi di disoccupazione e l’avvio di una politica di investimenti in opere pubbliche per assorbire la disoccupazione.

Contributi ed esenzioni dalle imposte furono adottati per i lavoratori autonomi; fu decisa l’erogazione di un finanziamento a fondo perduto dell’importo massimo di 500.000 lire per le riparazioni urgenti dei fabbricati rurali. Si stanziarono 6 miliardi per l’acquisto di baracche e 15 miliardi per la costruzione di case di edilizia economico-popolare nelle province di Trapani, di Palermo e di Agrigento. Complessivamente l’impegno finanziario previsto ammontava a 45 miliardi e 360 milioni [3]. Contemporaneamente anche l’Assemblea Regionale Siciliana approvò una legge di intervento nelle aree danneggiate.

Santa Ninfa: baraccopoli costruita in contrada Acquanova.

Una ricostruzione importante, benché offuscata e non conclusa

Le competenze in materia di indennità di esproprio delle aree e di costruzione degli alloggi furono assegnate al Provveditorato alle Opere Pubbliche di Palermo, controllato dal ministero dei Lavori Pubblici. Per programmare la propria azione questo ente adottò gli indici di danno calcolati per ciascuna località dal Genio Civile nei giorni immediatamente successivi alla scossa del 15 gennaio. Tali indicatori non tenevano però conto dei danni, anche molto gravi, causati dalle forti repliche successive, e furono quindi giudicati ampiamente sottostimati.

I decreti legge e la legge-quadro per la ricostruzione (n. 241 del 18 marzo 1968) indicarono le località di Montevago, Gibellina, Poggioreale e di Salaparuta come centri da trasferire completamente; furono, invece, classificati come paesi soggetti a parziale trasferimento dell’abitato Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Sambuca di Sicilia, Calatafimi, Salemi, Vita, Camporeale e Contessa Entellina [2].

Ostacoli di natura sociale e politica si incontrarono anche nella scelta dei terreni su cui edificare i nuovi centri abitati. La nuova Gibellina fu localizzata in prossimità della stazione ferroviaria di Salemi e dello svincolo autostradale, nella convinzione che ciò facilitasse il decollo industriale dell’area e il risveglio della vita economica, ancora fortemente legata ad attività agricole. La scelta delle nuove localizzazioni per i centri di Salaparuta e Poggioreale fu dettata da motivi connessi alla disponibilità di terreni pianeggianti o in lieve pendenza, che permettessero l’ulteriore espansione dei paesi, evitando i rischi di instabilità a causa di pendenze accentuate.

Non sempre però le scelte operate si dimostrarono valide e svariati fattori contribuirono ad accentuare le difficoltà della ricostruzione. Molti furono gli operatori, pubblici e privati, ai quali furono affidate competenze, causando sovrapposizioni e conflitti che ebbero l’effetto negativo di rallentare le operazioni svalutando, di fatto, l’entità dei finanziamenti concessi della Stato. La precaria situazione economica delle zone danneggiate, venendo a mancare l’effetto volano dei capitali locali e dei consumi, non favorì il formarsi di un nuovo tessuto socio-economico integrato.

La mancanza in loco di materiali da costruzione fondamentali, quali ferro e cemento, ritardò ulteriormente l’opera di ricostruzione. Sul finire del 1973, solo il 10% degli alloggi necessari era stato edificato; per di più, questi alloggi non potevano essere assegnati in quanto non erano state ultimate le necessarie opere di urbanizzazione primaria (strade, acquedotti, reti elettriche) ed erano completamente assenti i servizi amministrativi e commerciali. Secondo i dati del censimento del 1971, nell’area maggiormente danneggiata le abitazioni precarie ammontavano a 15.056; nel 1973, a cinque anni dal terremoto, i baraccati erano ancora 48.182. La realizzazione delle nuove infrastrutture procedeva a rilento.

Manifestazioni di protesta e interpellanze parlamentari si succedettero a partire dal 1970. Nel 1976, secondo i dati riportati da un’inchiesta conoscitiva promossa dalla Commissione Lavori Pubblici della Camera dei Deputati (quinto governo Moro/quinto governo Andreotti), oltre 47.000 cittadini delle zone terremotate risiedevano ancora nelle baraccopoli. Solo 225 abitazioni erano state assegnate e molte delle infrastrutture, le opere sulle quali si erano concentrati gli interventi, giacevano inutilizzate; il loro destino di “cattedrali nel deserto” era irrimediabilmente segnato. Un coacervo di fattori fece di fatto fallire l’“utopia urbanistica” dei progettisti della ricostruzione.

Nonostante le tante difficoltà, ma grazie alla volontà e alla forza di resistenza dei sindaci e dei residenti rimasti, alla fine i paesi furono ricostruiti. I modelli adottati nelle ricostruzioni furono diversi e spesso opposti. In alcuni casi si tese a riprendere e a conservare l’antico volto storico dell’abitato, integrando anche parti delle rovine nello scenario urbano (Santa Margherita Belice); in altri prevalsero idee di modernizzazione, con l’adozione di forme urbanistiche lontane e non storiche (la città giardino, la città comunitaria), fuori contesto, ma non prive di una certa idealità, che oggi però appare muta e svuotata da quella complessa temperie.

Nel Belice hanno operato architetti, urbanisti e artisti, che hanno portato all’opera di ricostruzione un contributo importante. Il Belice divenne anche il luogo di un pensiero sociologico critico e vigile, contro collusioni fra istituzioni e interessi malavitosi. Protagonisti di primo piano furono Danilo Dolce (1924–1997), poeta ed educatore, teorico della non-violenza (definito il Gandhi italiano), e don Antonio Riboldi (1923-2017), allora parroco di Santa Ninfa, autorevole e coraggioso testimone della vita pubblica italiana (fino a tempi recentissimi) per la sue aperte e reiterate denunce contro interessi illegali politico-mafiosi. In quegli anni della ricostruzione don Riboldi aveva trovato l’appoggio del deputato siciliano Piersanti Mattarella, divenuto nel 1978 presidente della Regione Siciliana, e del generale Carlo Alberto della Chiesa, entrambi poi assassinati da Cosa Nostra, rispettivamente il 6 gennaio 1980 e il 3 settembre 1982.

La legislazione adottata nei decenni consentì un miglioramento delle condizioni generali dell’attività vitivinicola, ma non riuscì nel breve e medio termine a fare evolvere con decisione lo stato di arretratezza e la frammentazione delle aziende agricole operanti nelle aree più lontane dalla costa. Fu vicino al mare che decollò poi, dopo alcuni decenni, un’economia turistica, ancora in via di consolidamento. Nelle regioni collinari interne l’impatto del terremoto sulla vita e sulle attività degli abitanti fu paragonabile a una drammatica cesura, che interruppe modi consolidati di abitare e di coltivare la terra.

L’arte salva la memoria

I vecchi paesi distrutti della valle del Belice sono in gran parte ancora visibili, come cicatrici su quel bellissimo e fertile territorio. Rappresentano oggi quel paesaggio delle rovine che segna spesso il centro e il sud dell’Italia e di altri paesi del Mediterraneo. Qui le rovine sono presenti da tempo immemorabile, testimonianze di civiltà scomparse o di paesi abbandonati anche di recente. Gli abitanti le tollerano da sempre e ci convivono. Le rovine diventano un veicolo di memoria, un segno di radici, che il disuso dei luoghi non sempre cancella.

Gibellina: veduta del grande cretto di Alberto Burri, la prima rovina sismica divenuta un monumento alla memoria.

In alcuni paesi ricostruiti del Belice, in quelli che hanno vicinanza stretta con i vecchi siti abbandonati, sono stati allestiti in anni recenti dei percorsi pedonali definiti “della memoria”, portandovi illuminazione pubblica e panchine, come se fossero un parco dei ricordi o dei ponti verso il passato. In questi luoghi, che solo il nostro profondo sud sa concepire, si comunica con la storia del posto, con i resti di vecchie case squarciate, con un passato che la cultura diffusa del Paese stenta a ricordare. In queste strani percorsi si distinguono qua e là fra le macerie eleganti portoncini, fini modanature architettoniche, assieme a poveri muri semicrollati fatti di ciottoli, che lasciano intravvedere misere stanzette. Le tracce di grandi fatiche della sopravvivenza e di piccoli o grandi privilegi o soprusi sociali emergono nello stesso modo dal loro azzeramento. La percezione di questi luoghi non è lontana da quella di un’opera d’arte.

Verso le colline della vecchia Gibellina distrutta e abbandonata, sotto il sole o nelle notti di luna, si vede biancheggiare in lontananza una sorta di fantasma: è il grande cretto di Alberto Burri, un’enorme colata di cemento bianco che compatta dodici ettari di macerie del centro storico di Gibellina. Il progetto fu avviato nel 1984 e terminato nel 1989. Le macerie furono raccolte con i bulldozer, compattate e tenute insieme da reti metalliche. Sopra questi blocchi omogenei, alti circa un metro e 60, si colò il cemento bianco. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca l’impianto urbanistico di Gibellina. Qui l’arte salva la memoria. Una parte delle rovine, fatte di antichi vicoletti e contorti percorsi medievali, sono stati monumentalizzati e resi iconici dal cemento bianco. E’ il primo monumento alle rovine di un terremoto di tutta l’area mediterranea. Ha la forza e la semplicità di un segno alla coscienza del Paese.

a cura di E. Guidoboni (Centro EEDIS) e G. Valensise, INGV-Roma1.


Bibliografia

[1] E. Guidoboni, G. Ferrari, D. Mariotti, A. Comastri, G. Tarabusi e G. Valensise (2007). CFTI4Med, Catalogue of Strong Earthquakes in Italy (461 B.C.-1997) and Mediterranean Area (760 B.C.-1500), INGV-SGA, http://storing.ingv.it/cfti4med/.

[2] C. Caldo, L’insediamento nella valle del Belice (Sicilia) in relazione al terremoto del 1968, in “Rivista Geografica Italiana”, vol. 80 (1973), pp. 294-312; C. Caldo, Sottosviluppo e terremoto…, cit., 1975; G. Giarrizzo, Sicilia oggi (1950-86), in “Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia”, Torino 1987, pp. 603-696.

[3] Camera dei Deputati, IV Legislatura, Atti Parlamentari dell’Assemblea, Documenti, vol. 102 (1963-68), Legge n. 4797, Conversione in legge del decreto-legge 22 gennaio 1968, n. 12, concernente provvidenze a favore delle popolazioni dei Comuni della Sicilia colpiti dai terremoti del gennaio 1968, Roma 1968.


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