I terremoti nel Molise del 2002: la geologia e la sismotettonica
La sismotettonica è quella disciplina che dallo studio dei terremoti già avvenuti – poco cambia se siano dell’epoca strumentale o di epoche passate – estrae informazioni utili per capire l’evoluzione geologica e tettonica di un’area; e che usa quelle informazioni per fare delle deduzioni sulla sismicità futura di quella stessa area o di altre adiacenti o simili per caratteristiche. Tuttavia, come qualsiasi settore della sismologia, anche la sismotettonica soffre dell’impossibilità di scegliere le zone in cui indirizzare il proprio interesse, dovendo aspettare che sia la natura a decidere di “illuminare” le caratteristiche di una regione di cui si sa poco, scatenandovi un forte terremoto. In altre parole, il sismologo non può decidere dove e quando realizzare il suo esperimento, come fanno gli studiosi di molti altri ambiti disciplinari, ma deve attendere che sia la natura a farlo. Ne consegue che in sismotettonica l’avanzamento delle conoscenze procede a scatti e in modo semi-casuale.
L’area colpita dal terremoto di San Giuliano di Puglia del 31 ottobre 2002, e più in generale quella vasta area che si colloca a est e nord-est dell’asse delle catena appenninica nel suo settore abruzzese, molisano ed apulo, è certamente emblematica di questa condizione. Quel terremoto, con la forte scossa gemella del successivo 1° novembre e con l’immancabile seguito di repliche, più di ogni altra sequenza degli ultimi 50 anni ha rivelato caratteri della sismicità italiana che difficilmente sarebbero stati compresi se non fosse mai accaduto. Ma procediamo con ordine, e nel rispetto della cronologia dei fatti.
Il catastrofico terremoto dell’Irpinia 1980, di cui recentemente abbiamo ricordato il quarantesimo anniversario (http://terremoto80.ingv.it), per due decenni aveva spinto molti ricercatori a ritenere che la tettonica attiva di gran parte della catena appenninica fosse prevalentemente estensionale, distogliendoli dal cercare di capire cosa succedesse a est e nord-est della catena. L’impressione generale era che la gran parte del rilascio sismico fosse comunque da ascrivere all’estensione dominante lungo l’asse della catena (Figura 1).

I terremoti molisani del 2002 furono, quindi, una doccia fredda, che richiedeva un ripensamento delle nostre conoscenze e convinzioni (Figura 2). La distribuzione geografica delle scosse, la loro profondità e la loro cinematica erano totalmente inaspettate. La geologia della zona fu sconvolta da numerosi fenomeni franosi di varie dimensioni, ma non fu osservato nulla che potesse anche lontanamente somigliare a una scarpata di faglia. Del resto, che la faglia arrivasse ad interessare la superficie era decisamente improbabile, per via della profondità della sorgente sismica e dalla relativamente limitata magnitudo delle due scosse principali. Tutti sapevamo che esistono i terremoti nella crosta inferiore, ma poter vedere nel dettaglio – grazie a strumentazione ormai moderna – una sorgente sismica estesa collocarsi interamente sotto i 10 km di profondità era un fatto quasi del tutto nuovo (si veda ad esempio Latorre et al., 2010). Quasi nuovo, perché qualcosa di simile era successo con la sequenza sismica di Potenza del 5 maggio 1990, iniziata ufficialmente con una scossa premonitoria di Md 3.0 alle 8:11 e culminata alle 9:21 con la scossa principale, di Md 5.0. Anche questa sequenza, che durò a lungo con scosse anche significative fino a tutto il 1991, aveva avuto ipocentri piuttosto profondi e un insolito meccanismo focale trascorrente destro su un piano sub-verticale orientato quasi est-ovest; esattamente come si sarebbe verificato con le due scosse gemelle del 2002.

Al terremoto di Potenza inizialmente non si dette molto peso dal punto di vista sismotettonico, anche perché lo si riteneva relativamente piccolo, nonostante la sequenza si collocasse in una posizione abbastanza singolare. Gli eventi, infatti, si allungavano lungo una direttrice che sembrava limitare verso sud la rottura che aveva generato il terremoto del 1980, ma rispetto a questo evento si collocavano letteralmente al piano di sotto, poiché i terremoti più superficiali del 1990 erano profondi quanto le più profonde repliche del terremoto del 1980 e quanto il bordo inferiore della sorgente sismogenetica, che si collocava al massimo intorno ai 12 km. Ma dopo il 31 ottobre 2002 fu chiaro che i terremoti stavano mettendo in luce uno stile di fagliazione (sismogenetica, ma questo dal punto di vista strettamente tettonico è ininfluente) del tutto sconosciuto per l’Appennino meridionale: uno stile che richiedeva di identificare un “motore geodinamico” diverso dall’estensione che domina sull’asse della catena, e che poteva essere spiegato solo ammettendo che quantomeno nella crosta inferiore sia attiva una spinta in senso nord-ovest – sud-est. Si configurava così un curioso fenomeno di disaccoppiamento tra quello che avveniva nella crosta superiore, e che doveva trarre la sua origine dalle fasi tardive dell’orogenesi appenninica, e la deformazione che aveva luogo nella crosta inferiore, che rispondeva a una dinamica alla scala delle grandi placche litosferiche. A questo insolito quadro geodinamico si aggiungeva un ulteriore motivo di apprensione: il fatto che la sequenza sismica si fosse manifestata con due scosse praticamente gemelle, violando il principio (in realtà mai declamato, e tantomeno scritto) per cui una sequenza sismica inizia con una forte scossa, talvolta preceduta da qualche piccola premonitoria, e poi procede con delle repliche di magnitudo via via decrescente che si esauriscono secondo leggi ormai note e accettate da molti decenni. Questo stile aveva caratterizzato i tre più forti terremoti del ‘900 – quelli del 1908, 1915 e 1980 – e, se non altro, non aggiungeva un’ulteriore preoccupazione a chi aveva subito il terremoto e a chi stava prestando i primi soccorsi. Ma anche in questo caso non si trattava di una novità assoluta: come hanno osservato Vannoli et al. (2015: Figura 3), nel cinquantennio tra il 1962 e il 2012, su 14 sequenze complessive ben 10 hanno mostrato due o più scosse principali di dimensioni confrontabili (entro 0.3 punti di magnitudo, grossolanamente): 11 su 15, se vogliamo, considerando anche la molteplicità di forti scosse che ha caratterizzato la sequenza dell’Appennino centrale del 2016-2017. Un esame anche grossolano dei terremoti di epoca pre-stumentale mostra un comportamento analogo, reso in parte meno evidente dal limitato potere risolvente tipico dei dati storici, in cui spesso gli effetti di scosse successive tendono a confondersi.

A questo punto diventava importante capire che diffusione avesse il nuovo meccanismo rivelato dai terremoti del 2002, e prima ancora da quello del 1990, perché era ben possibile – anzi, quasi certo – che questo stile di fagliazione fosse condiviso da altri terremoti, anche molto più grandi, avvenuti sul versante adriatico dell’Appennino centro-meridionale. Allo stesso tempo appariva chiaro che le faglie di questa nuova famiglia, la cui esistenza (ma non lo stato di attività) era stata già messa in evidenza dai geologi degli idrocarburi, difficilmente avrebbero potuto essere studiate con i tradizionali metodi di terreno. La loro profondità e l’eterogeneità della struttura della crosta superiore rendevano estremamente improbabile che tali faglie potessero manifestarsi in superficie come era avvenuto in Irpinia 22 anni prima, anche a seguito di terremoti molto forti. Tuttavia, si sapeva con certezza che si trattava di faglie trascorrenti antiche, generate durante le fasi parossistiche dell’orogenesi appenninica in risposta a una spinta prevalentemente sud-ovest – nord-est, e quindi necessariamente caratterizzate da una cinematica non destra, come quella dei terremoti del 1990 e 2002, bensì sinistra (Figura 4).

La comunità scientifica cominciò a interrogarsi su come aggiornare il quadro geodinamico e della sismogenesi allora noto, alla luce delle importanti novità rivelate da quel terremoto tutto sommato piccolo, se confrontato ad esempio con il terremoto del 1980. Venne dapprima “metabolizzata” la novità geodinamica principale, cioè l’esistenza di un campo di sforzi compressivo profondo, con asse di spinta orientato nord-ovest – sud-est, dunque in direzione parallela all’Appennino, che spiegasse la cinematica destra delle faglie profonde est-ovest (Figura 5).

In seguito, si passò a rimodulare la distribuzione delle sorgenti sismogenetiche di tutto il settore considerato, dall’Abruzzo alla Basilicata inclusa, con l’obiettivo di delineare con la maggior precisione possibile questi fasci di faglie profonde; faglie di cui – come già detto – si conosceva l’esistenza ma non lo stato di attività. Le faglie sono state delineate con un delicato gioco di incastro tra le poche informazioni geologiche disponibili, prevalentemente costituite da mappe e modelli del basamento profondo resi disponibili dalla ricerca petrolifera, e la localizzazione dei terremoti noti, sia storici che strumentali. Tra il 2003 e il 2004 questa fase di attività ha portato a una revisione drastica delle sorgenti sismogenetiche proposte per l’Italia centro-meridionale nel database DISS (Basili et al., 2008; DISS Working Group, 2021), che negli stessi anni è stato oggetto di un ampio aggiornamento nella struttura, oltre che nei contenuti (Figura 6). La nuova distribuzione delle sorgenti sismogenetiche introdotta dal DISS è stata recepita anche dal modello di zonazione sismogenetica ZS9 (Meletti et al., 2008), riferimento di base per calcolare i ratei di sismicità attesa da utilizzare per la compilazione della Mappa di Pericolosità Sismica denominata MPS04 (http://zonesismiche.mi.ingv.it). A sua volta la MPS04 è diventata il modello di riferimento per le Norme Tecniche per le Costruzioni varate nel 2008 (NTC08), e in seguito per il loro aggiornamento del 2018 (NTC18).

Per concludere, in sismotettonica è frequente che un singolo terremoto faccia registrare grandi progressi nella comprensione della sismogenesi: in Italia era già successo con il terremoto del 1980. Ma pochi eventi come i due “piccoli” terremoti del 2002 hanno influenzato così tanto non solo la comprensione di meccanismi geodinamici fino ad allora ignoti, ma anche la nostra consapevolezza sulla pericolosità sismica dell’Italia del centro-sud, imponendo una revisione della normativa che avrebbe cambiato per sempre l’approccio dell’Italia alla prevenzione sismica.
A cura di Gianluca Valensise (INGV – Sezione Roma1)
Bibliografia
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Di Bucci, D., P. Burrato, P. Vannoli e G. Valensise (2010).Tectonic evidence for the ongoing Africa- Eurasia convergence in central Mediterranean foreland areas: A journey among long-lived shear zones, large earthquakes, and elusive fault motions, J. Geophys. Res., 115, B12404.
DISS Working Group (Basili, R., P. Burrato, G. De Santis, U. Fracassi, F. E. Maesano, G. Tarabusi, M.M. Tiberti, G. Valensise, R. Vallone, P. Vannoli) (2021). Database of Individual Seismogenic Sources (DISS), Version 3.3.0: A compilation of potential sources for earthquakes larger than M 5.5 in Italy and surrounding areas. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dicembre 2021, doi: 10.13127/diss3.3.0.
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Latorre, D., A. Amato e C. Chiarabba (2010). High-resolution seismic imaging of the M(w)5.7, 2002 Molise, southern Italy, earthquake area: Evidence of deep fault reactivation; Tectonics, 29, Article Number: TC4014, doi: 10.1029/2009TC002595.
Meletti, C., F. Galadini, G. Valensise, M. Stucchi, R. Basili, S. Barba, G. Vannucci e E. Boschi (2008). A seismic source zone model for the seismic hazard assessment of the Italian territory, Tectonophysics, 450, 85–108, doi: 10.1016/j.tecto.2008.01.003.
Valensise, G., e D. Pantosti (2001). The investigation of potential earthquake sources in peninsular Italy: A review, J. Seismol., 5(3), 287-306.
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