TERREMOTO80 – Il terremoto del 1980 in Irpinia e Basilicata e la nascita degli studi di Geologia del Terremoto e di Tettonica Attiva in Italia

Tra i geologi più attivi nell’individuazione della struttura responsabile del terremoto del 1980 ci sono Daniela Pantosti e Gianluca Valensise, a cui abbiamo chiesto di raccontarci come hanno vissuto il periodo che li ha portati a quella “scoperta” e come questa sia stata raggiunta e accolta dalla comunità scientifica di allora.

Il quarantesimo anniversario del catastrofico terremoto del 23 novembre 1980 è certamente un’occasione per alcune riflessioni su come quell’evento, oltre ad aver profondamente modificato l’assetto urbanistico, economico e sociale della regione che ha colpito, ha modificato il corso della ricerca in campo sismologico, e non solo in Italia. Il terremoto ha in effetti agito come un potente volano nei confronti di una ricerca che nei decenni precedenti aveva stentato a riprendere il ruolo e il peso che avrebbe meritato, in un Paese ad elevato rischio sismico e vulcanico quale è l’Italia. La disponibilità di dati strumentali di buona qualità e registrati in real-time ha dato un forte impulso alla sismologia strumentale, che a sua volta poggiava su una lunga tradizione avviata già all’indomani del terremoto del Belìce del 1968. Ma il particolare momento storico, che tra il 1973 e il 1980 aveva visto anche il riavvio del Piano Nucleare nazionale, e dunque la urgente necessità di comprendere meglio il potenziale sismogenetico delle diverse aree del Paese, convinse Enzo Boschi, salito alla guida dell’ING nel 1982, a proporre un sostanziale ampliamento dello spettro delle attività di ricerca svolte dall’Istituto.

Il primo settore disciplinare a beneficiarne fu la Sismologia Storica, che pure poteva contare su una solida tradizione tutta interna all’ING. A partire dal 1987 fu la volta degli studi di Tettonica Attiva, allora sostenuti quasi solo dagli autori di questa nota. Eravamo due ricercatori meno che trentenni, arrivati all’ING seguendo percorsi distinti in un momento storico in cui l’Istituto era in piena espansione; le nostre proposte scientifiche, in buona misura nuove per i nostri colleghi più anziani, venivano recepite da tutti – a partire da Enzo Boschi stesso – con entusiasmo e curiosità. Certamente ci aiutava il fatto di esserci entrambi formati alla scuola di Renato Funiciello e Maurizio Parotto presso l’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Roma, allora l’unico ateneo della Capitale: due grandi geologi che godevano di grande rispetto all’ING, al punto che Renato Funiciello ne fu per anni il vicepresidente.

Ma fu subito chiaro che l’obiettivo che ci eravamo dati, con l’incoscienza tipica di chi è entrato da poco nel mondo del lavoro, non era facilmente raggiungibile. L’Italia aveva già una lunga e solidissima tradizione di studi geologici, condotti e varie scale e per diverse finalità, ma in quegli anni la ricerca in Tettonica Attiva era decisamente agli albori. I soli corsi universitari che potevano fornire alcuni degli strumenti che poi ci sarebbero serviti erano quelli di Geologia Strutturale, Geologia e Paleontologia del Quaternario, Sedimentologia e Geocronologia, e la ricerca più pertinente si svolgeva prevalentemente fuori dagli atenei.

Il terremoto del 1980: nella tragedia, uno straordinario caso di scuola

Il terremoto del 1980 fu dunque il nostro primo banco di prova, in omaggio a un principio che ancora oggi consideriamo basilare:

Per il geologo un forte terremoto è quell’occasione unica durante cui vengono illustrati in modo istantaneo l’andamento e l’entità degli effetti in superficie della dislocazione su una faglia profonda.

Da sempre i grandi terremoti illustrano elementi della geologia e dell’evoluzione tettonica che sarebbe molto difficile cogliere in altra maniera; e non vi è dubbio che a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 lo studio dei terremoti ha consentito di comprendere aspetti dell’evoluzione geologica recente della penisola che non erano stati colti nella loro interezza – o non erano stati colti affatto – dalla geologia tradizionale.

Il dibattito sulle faglie attive e sulla sismogenesi (il processo di generazione dei terremoti) è approdato in Italia solo tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, soprattutto grazie alle ricerche per il siting delle centrali nucleari. Un posto d’onore in questo dibattito pionieristico spetta a Carlo Bosi, che nel 1975 propose di avviare un’azione di riconoscimento sistematico di faglie attive sulla base della loro espressione superficiale (Bosi, 1975): una proposta forse troppo avanzata per i tempi, e che purtroppo non fece molta strada. Ciononostante negli stessi anni, sotto l’egida del Progetto Finalizzato Geodinamica, veniva ultimata la compilazione del Modello Strutturale d’Italia, della Carta Tettonica d’Italia e della Carta Neotettonica dell’Italia meridionale: esperienze importanti, che gettavano un primo ponte tra l’evidenza geologica di superficie, quella accessibile a ogni geologo di terreno, e il verificarsi di grandi terremoti, così come si riteneva logico che fosse e così come avveniva con successo nelle aree a più elevata sismicità del mondo occidentale.

Ma il clima di generale ottimismo riguardo alla capacità del geologo di identificare i principali elementi della tettonica attiva e di anticipare l’esistenza di faglie sismogenetiche stava per essere offuscato dalle prime delusioni. Gli studi sui forti terremoti italiani di quegli anni, e segnatamente quelli del Belìce del 1968 e del Friuli del 1976, sembravano infatti dimostrare che quegli eventi non avevano interessato nessuna delle faglie note; sembrava addirittura impossibile identificare una faglia – per quanto fino ad allora ignota – che potesse esserne considerata la sorgente.

Anche il terremoto del 1980, decisamente più energetico (MW 6.9) dei due eventi che lo avevano preceduto nel 1968 e nel 1976, apparve ai primi geologi che si recarono sul terreno per osservarne gli effetti geologici come l’ennesima dimostrazione di quella che stava diventando una curiosa “anomalia italiana”; l’assenza – quantomeno apparente – di tracce superficiali delle faglie sismogenetiche, anche per terremoti di magnitudo ben superiore a 6.0. Questo spinse molti a ritenere che in Italia la geologia, la tettonica attiva e la sismologia fossero insiemi disciplinari ad intersezione nulla. La California, la faglia di San Andreas e tutta la letteratura sismo-geologica anglosassone di quegli anni apparivano lontanissime, in tutti i sensi, anche se gli stessi sismologi statunitensi avevano attraversato una fase simile: fu lo stesso Charles Richter, infatti, ad asserire profeticamente che

… Because of the dispersion of seismological literature, geologists often overlook or ignore it. A recent paper on the geomorphology of a highly seismic region discusses rift valleys and faults, but ignores well-described faulting on two historical occasions, omits study of earthquake locations … and ends with an airy generality to the effect that the frequent earthquakes show that block movements are still going on… (Richter, 1958: Pag. 7).

1984: ha inizio la svolta

Ma le cose cambiarono presto. Nel 1984 Westaway e Jackson, due sismologi inglesi che avevano ricevuto da Vittorio Cagnetti, un sismologo dell’ENEA, foto molto eloquenti sugli effetti geologici del terremoto dell’Irpinia, pubblicarono sulla prestigiosa rivista Nature un resoconto degli effetti più evidenti osservabili nell’area epicentrale. Si apriva così, seppure con ritardo, una fase di studio che avrebbe dato vita a un settore disciplinare fino ad allora sostanzialmente assente in Italia.

Due chiari esempi di come si presentava la scarpata di faglia generata dal terremoto del 1980 (nella foto a sinistra è ritratto il Prof. Funiciello accanto a Daniela Pantosti, che appare anche nella foto a destra). In entrambi i casi la scarpata produce una contro-topografia, cioè solleva il versante nel settore SO rispetto al settore NE, che include la cima del rilievo. Questo anomalo rapporto tra la geometria della faglia e il paesaggio, osservato per la gran parte della rottura fu del tutto inaspettato, ed è stato una delle cause della lentezza nel riconoscimento della fagliazione superficiale in Irpinia.

Altri scorci della scarpata di faglia, che localmente presenta un assetto “normale” e produce il ribassamento del piede del versante rispetto alla cima del rilievo, contrariamente a quello che si vede negli esempi “anomali” mostrati sopra. Si tratta però di un caso del tutto isolato, che avviene solo grazie alla presenza del piccolo bacino di Piano di Pecore. Nella foto di destra Gianluca Valensise mostra la tecnica con cui veniva misurata l’altezza della scarpata.

A partire dal novembre del 1986 anche noi cominciammo a esplorare il quadro delle rotture superficiali causate da quel terremoto. Il lavoro di terreno non era agevole, per più di una ragione:

  • le rotture di superficie che stavamo ricostruendo non correvano al piede di un versante, come ci saremmo aspettati per una faglia estensionale, ma correvano principalmente lungo pendii di montagna, a quote spesso superiori ai 1.000 metri, in aree che, con poche eccezioni, erano raggiungibili solo a piedi o con mezzi fuoristrada (di cui l’ING a quell’epoca non disponeva);
  • le rotture si erano create ormai sei anni prima, un tempo sufficiente perché perdessero molta della loro freschezza, e quindi della loro visibilità. Questo avveniva anche perché molte di esse, contrariamente a quanto avviene comunemente nelle faglie estensionali, si opponevano al pendio topografico ed erano quindi facile preda dell’erosione dovuta allo scorrimento delle acque superficiali;
  • le nostre dotazioni di terreno erano quelle degli anni ’80; non esistevano gli strumenti che oggi sono di uso comune nel rilevamento geologico, come le immagini digitali, i tablets e i navigatori GPS tascabili, e la registrazione dei dati avveniva solo su supporto cartaceo;
  • la logistica dell’area era particolarmente difficoltosa: le poche strutture ricettive esistenti erano generalmente utilizzate dagli operai dei numerosi cantieri aperti, il che ci costringeva ad alloggiare a decine di chilometri da dove poi ci saremmo recati per il lavoro sul terreno.

Un elemento molto importante a nostro favore era però la benevolenza di tutti coloro che incontravamo: pastori, agricoltori, addetti alla ricostruzione. Molti di loro si prodigavano per indicarci il luogo esatto in cui cercare le rotture, dando un contributo fondamentale al successo della nostra ricerca.

Missione dopo missione, i risultati iniziarono ad arrivare. Il nostro primo obiettivo era stato Piano di Pecore, una piccola depressione intermontana posta a circa 1.180 metri di quota, dove una spettacolare scarpata alta fino a un metro si seguiva con facilità, sia nell’area pianeggiante che lungo i rilievi circostanti. Nei mesi successivi ci spingemmo progressivamente più a nordovest e a sudest, fino a ricostruire la scarpata di faglia per un’estensione di oltre 40 km.

1986: nuove idee e nuovi modelli per vecchi terremoti

In quegli stessi anni ci fu una decisa ripresa di interesse per gli effetti in superficie dei grandi terremoti del passato, come nel caso dello studio condotto da Serva et al. (1986) sul terremoto di Avezzano del 1915, e fiorirono nuove ricerche sui terremoti dello Stretto di Messina del 1908, di Gubbio del 1984 e della Val Comino (confine Lazio-Abruzzo), sempre del 1984. Ma il vero elemento di rottura restava il terremoto dell’Irpinia, che in pochi secondi aveva messo sotto gli occhi del geologo una serie di testimonianze della tettonica attiva assolutamente incontrovertibili, ma al tempo stesso quasi impossibili da ricavare da un’analisi geologica convenzionale.

A sinistra: mappa sintetica originale della scarpata, come da noi ricostruita a partire dal 1986; in totale, la faglia si estende per circa 40 km in piena area epicentrale, tra Lioni e San Gregorio Magno. Si noti la riproduzione realizzata completamente a mano libera, con pennino, china, retini e lettere trasferibili, su una base topografica minimale.

A destra: la stessa traccia, ma riportata in un sistema georeferenziato con una topografia 3D e la possibilità di includere o collegare tutte le informazioni utili quali base geologica, foto, sistema viario, centri abitati ecc.

Nel 1988 presentammo una prima ricostruzione di quanto era avvenuto in Irpinia al congresso della Società Geologica Italiana, che si svolgeva a Sorrento (Funiciello et al., 1988), proponendo una interpretazione decisamente “di rottura” rispetto alle convinzioni della gran parte dei colleghi, e ricevendo per questo una accoglienza decisamente fredda. In un lavoro che apparve sul Journal of Geophysical Research due anni dopo (Pantosti e Valensise, 1990) sostenemmo con dovizia di dettagli, aiutandoci anche attraverso l’elaborazione di dati di livellazione geodetica:

  • che il terremoto era stato generato da una faglia che per gran parte della sua lunghezza non coincideva con faglie mappate in precedenza, ma che nonostante questo interessava anche la superficie topografica, formando una scarpata cosismica (ovvero formatasi durante il terremoto, come ci dissero i locali) che in alcuni tratti mostrava attivazioni precedenti;
  • che questa faglia mostrava una sorprendente ma chiara tendenza a “rovesciare” la topografia, sollevando le valli e ribassando le dorsali;
  • che con l’unica eccezione del versante NE del Monte Cervialto, il terremoto non aveva riattivato neppure passivamente le faglie note, mostrando di essere stato generato da una faglia “giovane”, figlia di una tettonica “nuova”;
  • che la faglia pendeva verso NE, in contrasto con il modello di fagliazione estensionale “a gradinata” verso SW, ovvero verso il Tirreno, che dominava i modelli geodinamici dell’epoca; questa conclusione avrebbe poi dato impulso a una riconsiderazione complessiva della natura principalmente regionale del sollevamento dell’Appennino.

C’è forse da chiedersi perché questa sintesi, che fu poi largamente accettata e condivisa, sia arrivata a maturazione quasi un decennio dopo il terremoto. La spiegazione è forse nel fatto che in quegli anni i modelli geodinamici a grande scala, in genere abbastanza astratti, tendevano a prevalere sulle oggettivamente modeste e talora “timide” tracce di fagliazione superficiale lasciate dal terremoto. Ad esempio, la pendenza verso NE del piano di faglia principale, messa subito in evidenza dai sismologi, venne contestata a lungo sulla base della diffusa convinzione che l’Appennino meridionale fosse separato dal Tirreno da una gradinata di faglie necessariamente pendenti verso Sud-Ovest.

In sintesi, il terremoto del 1980 ha messo in moto un nuovo modo di pensare la Geologia del Terremoto e la Tettonica Attiva, portando alla scoperta di molte altre faglie attive potenzialmente generatrici di forti terremoti e creando le premesse per una crescita, straordinariamente rapida, di questo settore disciplinare. Dai forti terremoti del XX secolo abbiamo appreso che il rapporto tra le faglie sismogenetiche e la loro espressione nella geologia e nel paesaggio è molto più complessa di quanto non si ritenesse in passato, perché:

  • la tettonica in atto lungo la catena appenninica è geologicamente giovane;
  • in un sistema tettonico giovane, le faglie attive hanno bisogno di tempo per dare al paesaggio un’impronta caratteristica e manifestarsi chiaramente in modo fragile;
  • nel frattempo, la geologia regionale e il paesaggio a grande scala saranno dominati da faglie legate a sistemi tettonici preesistenti (estinti);
  • a seconda dei casi, le faglie antiche potranno essere sepolte dalla sedimentazione, o ringiovanite grazie al sollevamento regionale;
  • le evidenze delle faglie oggi attive possono essere comunque riconosciute grazie a studi di dettaglio e alle nuove tecnologie di terreno, che ci permettono di apprezzare anche piccolissime deformazioni;
  • le faglie di superficie ci illustrano ciò che accade sulla faglia a profondità sismogenetica; queste informazioni sono preziose, perché integrano e vincolano le tradizionali osservazioni strumentali, sismologiche e geodetiche.

1989: la nascita della Paleosismologia in Italia

La nascita della Geologia del Terremoto in Italia ha rappresentato una pietra miliare, perché ha aperto la possibilità di studiare le impronte lasciate dai terremoti del passato nel paesaggio e nella geologia, in epoca storica e preistorica. Questo ha consentito di ricostruire la storia sismica di una faglia o di una regione per diversi millenni, in alcuni casi anche per decine di millenni, e di estendere il record della sismicità ben oltre il periodo storico, che in genere non supera i due millenni. Queste storie sismiche estese sono utilizzate per costruire scenari realistici dei terremoti che avverranno in un futuro più o meno lontano.

Quindi, studiare il passato come chiave per il futuro. Due sono gli ingredienti principali che ci permettono di percorrere questa strada:

  • l’osservazione, tutt’altro che scontata in quegli anni, che i forti terremoti si ripetono nel tempo lungo la stessa faglia;
  • la comprensione del legame tra deformazioni cosismiche in profondità (dove si genera il terremoto) e deformazioni in superficie, sia lungo la faglia che in un’area circostante di decine o centinaia di km2.

Da questa consapevolezza è nata la Paleosismologia, che inizialmente – negli anni ’70 – era stata la risposta alle necessità dell’industria nucleare in Giappone e negli Stati Uniti, ma che successivamente si è evoluta come un contributo vero e proprio alle stime di pericolosità sismica.

Il terremoto del 1980 è stato il trampolino di lancio anche per la Paleosismologia, in Italia, ma anche in Europa. Il nostro banco di prova è stato Piano di Pecore, il bacino intramontano da cui è iniziata la nostra ricostruzione della scarpata di faglia del 1980. Nel bacino, la scarpata interrompeva il drenaggio verso la sottostante Valle del Sele, rendendolo di fatto endoreico* e trasformandolo episodicamente in un piccolo pantano, fino al colmamento deposizionale della depressione creata dal terremoto stesso: un caso decisamente unico ed estremamente favorevole alla registrazione geologica dei terremoti del passato.

In un giorno nebbioso dei primi di giugno del 1989, esattamente nelle ore in cui a Pechino si consumava la tragedia di Piazza Tienanmen, a bordo di un Ducato bianco dell’Istituto abbiamo nuovamente raggiunto Piano di Pecore. Erano con noi David Schwartz, un ricercatore del Servizio Geologico degli Stati Uniti, uno dei pionieri della Paleosismologia, e Mustapha Megraoui, un collega algerino nostro coetaneo, che aveva appena concluso la sua prima “esperienza paleosismologica” sulla faglia di El Asnam (Algeria): una faglia che aveva prodotto un grande terremoto (MW 7.3) neanche due mesi prima della faglia dell’Irpinia, nell’ottobre del 1980.

David è stato la nostra guida in questo studio; la sua esperienza ci ha permesso di apprendere in breve tempo tutto ciò che i corsi universitari non ci avevano potuto insegnare, ovvero le tecniche e gli approcci all’avanguardia per stabilire come intercettare la scarpata di faglia con una trincea e come riconoscere i paleoterremoti registrati dalla sequenza deposizionale così messa in luce. Ci seguiva un enorme e minaccioso scavatore che con la sua pala aveva il compito di aprire uno scavo lungo una trentina di metri, largo quattro e profondo altrettanto, attraverso la scarpata di faglia che ancora attraversava Piano di Pecore in modo molto evidente.

Trincea di Piano di Pecore. Sinistra: le prime operazioni di scavo della trincea. Il paletto indica la scarpata di faglia del 1980: la superficie su cui si trova lo scavatore è rialzata rispetto a quella su cui si trova Gianluca Valensise. Destra: la parete della trincea ripulita dal materiale di scavo; le bandierine colorate mettono in evidenza i livelli stratigrafici più importanti, mentre i riquadri vengono utilizzati per riportare graficamente gli elementi stratigrafici e tettonici. La scarpata del 1980 appare come uno scalino ben smussato alto circa un metro che interrompe la superficie piana del bacino (davanti al furgone bianco). Gli strati grigi contengono ceneri vulcaniche e sono intercalati a strati ricchi di sostanza organica tipici di un bacino intramontano. La sequenza è deformata in corrispondenza della scarpata in un’ampia flessura, e contiene la registrazione di ben quattro terremoti che hanno prodotto una scarpata in superficie del tutto simile e nella stessa posizione di quella che si è creata nel 1980.

Perché uno scavo attraverso la faglia? Come nelle pagine di un libro, le pareti di una trincea ci raccontano una complessa storia di eventi deposizionali, erosivi, tettonici; eventi che vanno prima compresi nel loro susseguirsi e nelle loro mutue interazioni, e che possono poi essere datati grazie alle moderne tecniche radiometriche.

Come fu del tutto chiaro solo dopo, il sito di Piano di Pecore conservava una testimonianza eccezionale della storia sismica recente della faglia che aveva generato il terremoto del 1980. Nelle pareti delle trincee aperte a Piano di Pecore riconoscemmo eventi di fagliazione superficiale del tutto simili a quanto osservato nel 1980: eventi che hanno interessato gli strati formati dall’accumulo di depositi sottili rimossi dalle pendici dei rilievi circostanti e ceneri vulcaniche originate dalle eruzioni dei vulcani campani. In un ciclo che si ripete almeno quattro volte uguale a sé stesso, periodi di deposizione indisturbata si alternano a eventi istantanei di deformazione (terremoti) che interessano tutti gli strati deposti fino a quell’istante. Subito dopo la deposizione riprende indisturbata, finché un nuovo terremoto deforma nuovamente tutta la sequenza. Il risultato di questi eventi è mostrato nell’immagine qui di seguito. I depositi in basso (gialli), più antichi, hanno subìto più terremoti, e quindi le deformazioni prodotte da ciascun evento si sono cumulate; a loro volta i depositi più in alto nella sequenza (arancioni) sono più giovani, e quindi meno o per nulla deformati.

Ricostruzione schematica degli eventi di deposizione e fagliazione a Piano di Pecore. Gli strati giallo-verde, indisturbati (a) vengono deformati (b) in una ampia flessura in occasione di un terremoto. Un scarpata simile a quella del 1980 interrompe la superficie del Piano. (c) La deposizione di sedimenti nel bacino tende a riempire la zona ribassata e a nascondere la scarpata di faglia. (d) Un nuovo terremoto produce una nuova scarpata di faglia in superficie e la deformazione di tutta la sequenza sedimentaria. Gli strati giallo verdi appaiono molto più deformati di quelli arancioni: i primi hanno registrato 2 terremoti, gli altri solo uno.

Ma dopo averli riconosciuti nella stratigrafia, come si datavano i paleoterremoti? Un altro attore fondamentale nella nostra esperienza è stato Gilberto Calderoni, dell’allora Istituto di Geochimica dell’Università la Sapienza di Roma. Gilberto ci ha guidato nel mondo della geocronologia, e in particolare ci ha aperto le porte alla comprensione dei complessi processi che portano alle datazioni col metodo del Radiocarbonio. Oggi le nuove tecnologie permettono di datare anche campioni minuscoli, mentre allora avevamo bisogno di grandi quantità di depositi ricchi in carbonio, ad esempio materiali torbosi, il che rendeva molto più difficile datare i paleoterremoti.

Trincea aperta alla base del versante che scende dalla cima della dorsale Monte Marzano-Monte Carpineta verso il Piano di Pecore. La scarpata di faglia del 1980 si trova nella parte alta dello scavo, in corrispondenza della faglia (in rosso) che pende verso la parte antistante e produce il ribassamento di questo settore (vedi movimento indicato dalle frecce). La faglia separa depositi massivi di pendio, di colore marrone chiaro, da depositi stratificati con intercalazioni organiche, in marrone scuro, livelli vulcanici grigi, e depositi di pendio. I livelli organici contengono frammenti di carbone e legno o sono ricchi in torba, e sono stati datati grazie al radiocarbonio presente in quantità significativa in questi materiali.

Ma l’impresa è riuscita: tra il 1989 e il 1991 abbiamo scavato e studiato quattro trincee attraverso la faglia dell’Irpinia, nelle quali, oltre al terremoto del 1980, abbiamo individuato quattro paleoterremoti di dimensioni confrontabili all’ultimo, avvenuti nell’arco degli ultimi 10.000 anni circa (vedi tabella). Anche questi risultati sono stati oggetto di diverse pubblicazioni, e a distanza di oltre tre decenni possono essere considerati le fondamenta della Paleosismologia italiana.

Terremoto Età
1 1980 AD
2 540 AD-820 BC
3 1520 BC-2400 BC
4 2340 BC-4810 BC
5 5480 BC-7030 BC

La tabella riporta i terremoti che hanno prodotto fagliazione superficiale lungo la faglia dell’Irpinia e i cui effetti sono stati riconosciuti nelle trincee. L’età di ogni paleoterremoto cade in un intervallo molto ampio, sia a causa di limiti intrinseci del metodo di datazione stesso, sia perché i campioni datati non sono mai esattamente localizzati nella stratigrafia in corrispondenza del paleoterremoto. Oggi, grazie all’avanzamento nei metodi di datazione e alla modellazione statistica, questi intervalli possono essere sostanzialmente ridotti.

Da allora, la Paleosismologia ha iniziato la sua strada in Italia. Oggi lo scavo di trincee e la loro interpretazione continua ad essere sicuramente il metodo più utilizzato ed efficace per le ricerche paleosismologiche: ma, a seconda del contesto geologico, logistico e tettonico, per studiare la faglia e le zone limitrofe potenzialmente sotto l’influenza delle deformazioni cosismiche si ricorre ad approcci diversi, e talora innovativi. Si utilizzano quindi sondaggi, analisi topografiche ad alta risoluzione e analisi geochimiche di superfici di faglia, analisi geomorfologiche di elementi quali incisioni fluviali, piane e conoidi alluvionali oloceniche, analisi multidisciplinari per la ricostruzione 3D di geometrie profonde e superficiali.

In questi trenta anni, lentamente, ma con continuità, numerosi piccoli gruppi di ricercatori hanno caratterizzato la storia sismica di alcune decine di faglie che dissecano l’Appennino. Ad oggi sono state aperte in Italia circa 200 trincee paleosismologiche, che hanno dato luogo a numerosi articoli pubblicati su riviste scientifiche e report. La cosa più importante che abbiamo imparato è che i grandi terremoti (M6+) si ripetono sulle faglie appenniniche con cadenza generalmente millenaria o plurimillenaria, in accordo con i relativamente limitati strain rates (tassi di deformazione) che caratterizzano la nostra penisola. Le grandi faglie però sono numerose e producono risentimento in zone molto ampie, il che implica che il tempo di ritorno di forti scuotimenti a un singolo sito – da non confondere con il tempo di ricorrenza, che è una caratteristica della singola faglia – è al massimo plurisecolare (vedi immagini che seguono).

Questa epigrafe, che si trova nel Duomo di Ariano Irpino (AV), ricorda otto grandi terremoti che hanno colpito la città. Gli eventi sono datati 858 (probabilmente un errore per 848), 8 settembre 1349, 5 dicembre 1456, 17 marzo 1517, 5 giugno 1688, 8 settembre 1694, 14 marzo 1702 e 29 novembre 1732: quest’ultimo distrusse o danneggiò gravemente la chiesa. L’epigrafe, che rappresenta un monito permanente sulla pericolosità dell’area irpina, ricorda tutti coloro che hanno promosso prima i restauri e poi la completa ricostruzione della chiesa, completata nel 1736 sotto il patrocinio di Filippo Tipaldi, vescovo di Napoli e Ariano Irpino.

Frontespizio di un articolo apparso su EOS nel novembre 1990, in vista di un evento celebrativo del primo decennale del terremoto dell’Irpinia, che si svolse a Sorrento dal 19 al 24 novembre di quello stesso anno. L’articolo riferiva brevemente i primi risultati paleosismologici, discutendo il paradosso che nasce dal contrasto tra la ricorrenza ultramillenaria dei forti terremoti rivelata dalle trincee, e la frequenza con cui l’Appennino meridionale viene scosso da terremoti disastrosi (a riguardo si veda l’epigrafe riportata nell’immagine precedente).

C’è ancora molta strada da fare perché gli studi paleosismologici siano diffusi su tutto il territorio nazionale e possano essere realmente utilizzati per estendere indietro nel tempo i cataloghi di sismicità, strumento essenziale per le analisi di pericolosità sismica. Al momento, in Italia, il contributo della storia paleosismica domina in numerose importanti aree – ad esempio lungo l’intera dorsale appenninica – consentendo di valutare sia la pericolosità convenzionale, quella da scuotimento, sia la pericolosità da fagliazione superficiale; una informazione che può essere cruciale per siti sensibili quali dighe, centrali per la produzione di energia e grandi infrastrutture per il trasporto di persone e merci.

* Un bacino idrografico o una regione le cui acque non hanno scolo al mare.

A cura di Daniela Pantosti e Gianluca Valensise (INGV-RM1).

Bibliografia

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